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Diego Masi, presidente AssoComunicazione
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2° giorno Summit Upa. Per la comunicazione, Wpp

13/03/2009

Non fraintendete. Si tratta semplicemente di un dato di fatto. Contesti stranieri a parte, infatti, a parlare del nostro mercato dal punto di vista della comunicazione sono stati Diego Masi e Martin Sorrell. Da qui la scelta del titolo. Senza nessuna malizia. Con il presidente AssoComunicazione ad aver scagliato più di qualche pietra, senza ritirare la mano. E Martin Sorrell a indicare la via dell’investimento, non quella del taglio. Come potete verificare dalla ripresa video del suo discorso, che youmark vi propone integrale. Certi che in molti susciterà più di una riflessione. 

Se nel primo giorno avevamo lamentato l’assenza di AssoComunicazione sul palco. Ieri è spettato proprio a lei aprire la giornata. Che tra l’altro si è dimostrata assolutamente più interessante e coinvolgente di quella del debutto. Se non altro perché c’è stato più coraggio, con diversi momenti che, togliendosi la maschera, hanno saputo entrare nel vivo delle questioni. Uno tra tutti l’incontro Giampaolo Fabris - Bernard Cova, i cui contenuti meritano approfondimento in separata sede. Basti qui ricordare che sul tavolo degli imputati sedeva il vecchio marketing, con le agenzie a sperimentare. Più ‘avanti’ delle aziende, che continuano a parlare di misurazione

Sposando a meraviglia la denuncia dell’assenza di un modello italiano alla comunicazione. Da sempre. Armando Testa a parte, infatti, non c’è un format nostro e originale, da esportare all’estero. E sulle cause non poco conta il sistema produttivo, con la crescente invasione di imprese estere, con la sempre minore libertà decisionale dei manager che in esse operano. Senza dimenticare che pure quelle italiane alla leva non ci hanno creduto mai fino in fondo. Con l’aggravante che oggi il rapporto agenzia - azienda è scivolato nell’appiattimento della mera fornitura. Con progetti mordi e fuggi che non fanno il bene di nessuno. 

Ma, come giustamente detto ieri da Masi, il recupero sembra ormai pregiudicato. Almeno sul fronte dei numeri. Il 65% degli investimenti in comunicazione sono fatti da realtà a capitale straniero. A credere nella pubblicità sono 27.000 imprese, di esse le prime 100 fanno il 50% dello spending, le prime 1000 l’85%, 10.000 il 96%, mentre alle restanti 17.000 appartiene l’ultimo 4%. Sicuramente dati già noti, ma ricordarli giova, per onore dei fatti, ma anche nella speranza di modificarli. E non finisce qui. Anche sul fronte delle agenzie la concentrazione è anomala. Sono solo 50 a fare il 50% dell’amministrato. 180 l’85%, mentre alle restanti 800-1000 restano le briciole. 

Che dire dunque sul futuro? Da tempo si ragionano nuovi modelli di agenzia. Con le teorie attuali a riportare in auge il concetto di servizio completo, focalizzando sulla consulenza, sulla gestione strategica dell’integrazione di specializzazioni differenti. Partendo dal consumer insight, dunque, ricerca, ascolto, segmentazione creativa. Allargando alla multidisciplinarietà, in una sorta di configurazione federale, dal digitale al direct, dalle promozioni al media. Soprattutto recuperando la fiducia. La funzione consulenziale, che costruisce nel breve pensando al lungo, con strategia. Puntando molto sulla creatività, sull’idea. 

Ricordando che per fare tutto questo c’è bisogno di investire. In ricerca, talenti, professionalità, strumenti, tecnologie. C’è bisogno di ridare un valore alla creatività, di remunerarla. Le gare all’ultimo sangue non vanno certo in questa direzione. Così come il pagare le agenzie per la mera esecuzione. Significa ridurle all’osso. E lo sono già. Con un ultimo appunto. Nemmeno internet è la panacea di tutti i mali. Certo, l’innovazione passa per il digitale. Ma anche.

 

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