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Henry Jenkins: la cultura della convergenza

11/01/2008

Recente la pubblicazione in Italia, a firma Apogeo, del suo ultimo libro ‘Cultura Convergente’. Interessanti le sue riflessioni. Perché se il web 2.0 degli esordi affascinava coinvolgendo molti, ma arricchendo solo qualcuno, il futuro riserverà sorprese. In discussione il prestabilito modello di business, sotto la spinta di una nuova e circolare cultura, soprannominata della convergenza. Youmark ha intervistato Henry Jenkins, direttore del Comparative Media Studies Program del Mit, e non solo.

Il 2006 è stato l’anno in cui il web 2.0 si è fatto conoscere dal grande pubblico", spiega. "Le internet company che allora hanno capito il valore della costruzione di relazioni durature con i propri consumatori attraverso la condivisione e lo scambio di contenuti generati dagli stessi utenti, così come delle community e dei social network, oggi prosperano. All’epoca tutti volevano parlare di YouTube e Second Life, volevano saperne di più. Il successo del fenomeno ha successivamente alimentato le prime perplessità. 

Nel 2007
, infatti, gli user si sono iniziati a chiedere perchè a fronte del loro lavoro solo qualcuno doveva guadagnare. Quando si è saputo della vendita di YouTube a Google per quella incredibile cifra, la sola occasione di disporre di una piattaforma internazionale in cui esprimersi, non è più sembrata ragione sufficiente. 

E’ pur vero che la profondità della crisi dipende dalle motivazioni della partecipazione. Perchè c’è anche chi ha obiettivi meramente divulgativi e, dunque, si limita a godere della possibilità di far arrivare i suoi messaggi a più gente possibile. Oppure chi se ne serve per ‘mettersi in mostra’ professionalmente, così come chi è attratto semplicemente dalla condivisione, dall’interscambio, dalla conoscenza. Ma in ogni caso, si inizia a percepire fastidio all’idea che qualcuno possa trarre da tutto ciò profitto. 

Ecco perché nel 2008 sentiremo discutere molto dei motivi che spingono alla creazione e condivisione di contenuti in rete. Mi piacerebbe poter predire che il tutto servirà a ripensare il modello di business esistente. Magari grazie alle nuove iniziative, che nell’intento di minare la supremazia di realtà come YouTube sapranno proporre ai loro user nuove condizioni. Ad esempio la prospettiva di condividere con gli utenti i ricavi pubblicitari che grazie ai loro stessi contenuti sapranno generare”.

Cos’è esattamente la cultura della convergenza?
“Uso questo termine per indicare l’intersezione di due trend. Da un lato il crescente interesse che l’industria dei media ha nel divulgare i contenuti in tutti i canali possibili. Dall’altro l’aumento della voglia dei consumatori di avere un ruolo attivo nella produzione e nella diffusione di contenuti. La cultura della convergenza è quella che prende forma sia all’interno dei centri di potere tradizionali, che nelle case dei teenagers. YouTube e Second Life sono i siti che l’hanno resa più visibile. Ma il suo diffondersi è strabiliante. 

Non passa settimana senza notizie di cose nuove introdotte dagli user, o di nuove strategie adottate dai media principali per rendere più attivo il ruolo del loro pubblico, coinvolgendolo nella creazione di contenuti. Aumentano gli sforzi per far circolare i contenuti media. Pensiamo all’uso del download come accesso agli show televisivi. Aumentano gli esempi di quanto io chiamo ‘transmedia storytelling’, ossia di integrazione di esperienze entertainment attraverso piattaforme multiple. 

Non a caso, lo sciopero degli sceneggiatori americani verte proprio sulla ricerca di una modalità per cui il lavoro creativo possa essere compensato per il contributo offerto a questi nuovi canali media, chiedendosi anche se questo medesimo lavoro debba intendersi prevalentemente di tipo promozionale, cioè un differente aspetto del branding, o creativo, vale a dire estensione del testo televisivo. 

Senza dimenticare il tema della ‘neutralità della rete’, per il cui principio i media maker dilettanti devono continuare ad avere accesso alla stessa bandwidth dei commercial media maker”.

Stiamo assistendo alla definizione di nuovi equilibri di potere. Chi perde e chi vince?
“La realtà è che quelli che detenevano il potere nel vecchio paradigma dei mass media, nella nuova cultura della convergenza perdono controllo. I consumatori oggi possono fare dei contenuti ciò che vogliono. Scaricarli, mixarli, modificarli, mescolarli, rimettendoli poi in circolazione come a loro più piacciono. 

E non c’è nulla che brand ed entertainment company possano fare per fermarli. Se tentano azioni legali rischiano di alienarsi una fetta di consumatori, anche perché in un contesto come quello contemporaneo si fa presto a rivolgersi altrove, alla ricerca di interlocutori più accomodanti. Il che significa che le media company devono smettere di temere le iniziative dei consumatori, studiando invece il modo di trasformarle in opportunità. Devono, anzi, sostenere queste ‘intrusioni’, condividendo informazioni, inventando nuove vie di collaborazione. Anche perchè conoscere e monitorare questa attività dei propri consumatori significa capire le loro esigenze, rispondendo in modo più consono alle aspettative.

Nel tuo ultimo libro parli di necessità di ‘rinegoziare l’economia morale’, cosa intendi?
“Intendo dire che siamo di fronte alla necessità di un ripensamento. Un sistema si rompe quando una delle sue parti sente di non essere trattata ragionevolmente. L’impatto delle nuove tecnologie sulla fruizione media è causa ed effetto di un malcontento. Pensiamo alla musica, o ai film, dove al posto del termine ‘pirateria’ oggi i consumatori usano ‘sharing’. 

Ma anche alla diatriba tra i network televisivi e YouTube. Perché la tecnologia ha modificato i modi in cui i produttori di contenuti e i consumatori si ‘percepiscono’ e il conflitto di interessi che ne deriva ha implicazioni economiche, con conseguenze che non possono essere stabilite. Per questo penso sia necessario rinegoziare l’economia morale, ossia fare un passo indietro per creare un nuovo sistema culturale ed economico, che possa essere accettato e legittimato da tutte le parti coinvolte”.

Qual è la tua opinione sulla situazione italiana, confrontandola con il contesto internazionale?
“Non ho passato sufficiente tempo in Italia per poter dare un giudizio, anche se spero di riuscire a farlo in futuro. I trend descritti nel mio libro, pur avendo rilevanza globale, impattano in modi differenti nei singoli paesi. Alcune piattaforme media sono decollate velocemente in Europa o Asia, mentre in America segnano il passo. Altre viceversa. 

Il tasso di cambiamento è diverso perchè dipende da come la cultura ‘negozia’ con lo sviluppo tecnologico ed economico. Paesi come Usa e Giappone, che storicamente hanno dominato la cultura industriale del mondo, hanno sicuramente dei vantaggi in questa nuova ‘ecologia media’. Ma il proliferare di network che supportano le produzioni della gente comune, così come la nascita di nuovi mercati di nicchia, creano opportunità per tutti i paesi del mondo. In Europa, ad esempio, stiamo vedendo governi investire nella creatività dell’industria digitale, proprio in vista di una maggiore considerazione nel mercato media internazionale”.

 

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