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Fidelio Perchinelli, direttore generale AssoComunicazione
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La misura del marketing di relazione

19/10/2007

Alle aziende italiane non piace misurare. Per diversi motivi. Tutti legittimi, al punto da diventare alibi. Con la conseguenza che delle scelte non si sa mai il perché. Sicuramente un danno per la cultura della comunicazione che, in quanto investimento, avrebbe l’obbligo di dimostrare che rende. Ma anche per il marketing che, se perde il ruolo di ‘profit maker’, rischia la marginalizzazione.

Il profitto è il fine ultimo dell’impresa. Il management si valuta in base al suo apporto ai conti dell’azienda. Così dovrebbe essere anche per il marketing. Ma, cosa strana, nonostante tutte le aziende, o almeno la maggior parte (65%) definiscano utilissima la misurazione della redditività degli investimenti in comunicazione, a controllarla effettivamente sono in pochissime e, cosa anche più grave, per molte non è nemmeno così importante, al punto che non intendono farlo nemmeno in futuro. Fanno eccezioni le grandi multinazionali, guarda caso quelle straniere.

L’ultima indagine 'Le imprese italiane e il marketing di relazione', realizzata da AstraRicerche per conto di Assocomuniazione, mette a nudo una situazione quasi ‘imbarazzante’, in cui il Roi delle scelte sembra non rappresentare una priorità condivisa. E non sono poche le motivazioni a sostegno. Alcune più che plausibili, al punto da diventare alibi. 

A decidere di provarci sono spesso i vertici aziendali. Per assegnare le risorse, ma anche per valutare le prestazioni, tanto che la ‘misurazione’ finisce per essere temuta. Si crea, insomma, una sorta di conflitto di interessi, per cui il manager sente quasi di doversi impegnare per fornire ai superiori la ‘prova’ del suo errore. 

In ogni caso, poi, nella maggior parte dei casi, a essere controllata non è l’efficacia, dunque il Roi, quanto piuttosto l’efficienza, valutando soprattutto i messaggi e la creatività della campagna. Senza dimenticare il freno della componente culturale, nel senso che in Italia a valere sono le relazioni personali, a discapito dell’oggettività di dati e analisi. 

Per avere competenza ed oggettività, poi, le misurazioni vengono date in outsearching. Ad agenzie, centri media o concessionarie, senza far corrispondere all’interno dell’azienda una cultura in tema, con il risultato di un ulteriore impoverimento della prassi. 

Inolte, si tratta di operazioni che richiederebbero continuità, impossibile pensare di ragionarle in modo puntuale. Anche perché la misurazione di questi risultati è oggettivamente difficile, così influenzata anche dagli altri elementi del marketing mix, oltre che dal contesto di riferimento, dalla congiuntura economica del momento, ma anche dalle contemporanee azioni dei concorrenti.

Promozioni. Gli investimenti in tessere fedeltà, raccolte punti, incentive, concorsi a premio immediato, etc. non superano il 10% del budget complessivo di comunicazione nel 43% dei casi. C’è anche chi ci investe più del 50%, ma è un esiguo 14%. Il 19% degli intervistati spende tra l’11% e il 20% del budget, mentre il 24 % tra il 21% e il 50. Ben il 72% delle aziende che investono in promozioni ne misura il Roi, citando: analisi della redemption (78%), analisi del numero di contatti attivati (52%), analisi del sell-out aggiuntivo (51%).

Direct marketing. Il 47% delle aziende intervistate che investono in direct marketing, ci spende tra il 10 e il 19% del  budget. Solo il 16% supera il 20%, mentre il rimanente 37% arriva solo al 9%. Data la natura stessa di queste azioni, il 56% degli investitori in Direct Marketing utilizza forme di monitoraggio e misurazione del Roi. Tutte le aziende intervistate, invece, effettuano 'l’analisi della redemption del numero dei contatti’. Nel 68% dei casi ricorrono anche 'all’analisi del conversion rate’ (percentuale dei contatti che si sono tradotti in comportamenti). Anche ‘l’analisi della fidelizzazione', della redention post attività di Direct Marketing è abbastanza utilizzata.

Web&mobile. Relativamente contenuta la percentuale del budget di comunicazione destinata al canale web & mobile, pur trattandosi di uno 'tsunami' che ha travolto un pò tutti. Ovviamente il riferimento è più al web, restando il mobile meno diffusamente 'conosciuto'. Blog e communities, sms e mms, promozioni online, inserimento key words in google, siti societari, banner, etc., si collocano, infatti, intorno al 12%. Il 57% delle aziende  vi impegna meno del 5% della spesa totale, il 19% ne utilizza una perentuale tra il 5 e il 9%. Solo un’azienda su 10 investe una quota compresa tra il 10% e il 19%, mentre appena il 14% lo fa impegnado  più del 20%. Nel 67% dei casi vengono coinvolti strumenti di misurazione del Roi. Di loro: l’89% riguarda il calcolo dei ‘click trough’, il 72% l’analisi delle impression, mentre il 56% l'analisi del costo per click.

Pubblicità e in Pubbliche Relazioni sembrano ancora privilegiare gli strumenti più tradizionali, legati ai contatti generati, ai Grp’s, ai trend in termini di awareness delle marche e dei prodotti. Per le rp significa ‘valore’ degli spazi e dei tempi conquistati sui mezzi di informazione. A conferma della difficoltà di condividere un supporto metodologico in grado di valutare le campagne in funzione della capacità di incidere sul processo commerciale delle aziende e sulla difesa della profittabilità delle vendite lorde, realizzate sommando quelle del cosiddetto ‘normal trend’ con quelle delle vendite integrative, ottenute come effetto diretto di ciascuna campagna e di ciascuna delle sue componenti.

 

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